Dalla
qualificazione del rapporto di lavoro dipendono molti importanti risvolti, come
ad esempio la differenziata disciplina di tutela a seconda che si tratti di
lavoro subordinato e lavoro autonomo. Tuttavia le nozione giuridica di tali
categorie non sempre collima con le esigenze di tutela poste dal legislatore.
Esistono tipologie di lavoro subordinato che hanno perso il connotato della
debolezza contrattuale ed esistono invece tipologie di lavoro autonomo
caratterizzate da debolezza socio-economica ed escluse dall’apparato di tutela.
E’ per questo che è stato più volte richiesta una riarticolazione dell’apparato
protettivo che consideri anche particolari aree deboli del lavoro autonomo ,
laddove questo sia connotato, ad esempio, dalla mono-committenza.
La qualificazione per approssimazione
Il giudice è
chiamato a qualificare il rapporto come autonomo e o subordinato e lo deve fare
stabilendo quale sia stata la volontà delle parti, intesa come programma
negoziale originariamente stabilito e non basandosi esclusivamente su un mero
nomen iuris. La giurisprudenza, pur tenendo conto della volontà delle parti,
tende a qualificare il rapporto di lavoro solo sulla base dell’analisi del
comportamento tenuto concretamente dai contraenti e per fare ciò si avvale dello
strumento dei cosiddenti “indici
sintomatici” . In sostanza viene utilizzato il metodo della qualificazione per approssimazione :
sono stati elaborati degli indici empirici che possano segnalare come, in
concreto, si connoti un normale rapporto di lavoro subordinato. Viene accertata
dunque l’esistenza di quattro elementi costitutivi del rapporto di lavoro
subordinato : 1) la subordinazione intesa come messa a disposizione di energie
lavorative) 2)la collaborazione ( intesa
come inserimento nell’organizzazione produttiva) 3) l’onerosità ( intesa come
assenza di rischio in ordine al risultato produttivo) 4) la continuità ( intesa
come durata nel tempo del vincolo di disponibilità funzionale). Viene dunque preso in considerazione il
comportamento dei contraenti che non rileva soltanto in quanto comportamento
esecutivo del vincolo obbligatorio ma anche come elemento utile per presumere
l’esistenza di un’effettiva volontà contrattuale. Fra gli indici empirici
possiamo ricordare : l’assoggettamento al potere direttivo, l’assenza di
rischio, la cadenza e la misura fissa della retribuzione, l’osservanza di un
orario, lo svolgimento della prestazione nei locali di un’impresa, l’inerenza
della prestazione al ciclo produttivo, l’esclusività del rapporto.
Col tempo ci
si è però resi conto che molti degli indici empirici fossero compatibili con il
lavoro autonomo e invece a volte assenti in molte tipologie di lavoro
subordinato. E’ per questo che molto spesso si assiste a fenomeni di
qualificazione creativa che prescinde dalla fattispecie astratta dell’art. 2094
cod. civ. per supplire alle carenze del legislatore. Solo per fare un
esempio, Bisogna notare come il
requisito dell’onerosità sia comune sia al lavoro subordinato che a quello
autonomo, oppure come il richiamo al risultato sia utile alla distinzione solo quando il rapporto di lavoro sia
finalizzato alla realizzazione di un’opera completa. Ecco perché
l’eterodirezione continua ad apparire l’unico criterio di qualificazione certa
del lavoro subordinato.
Molti sono
stati tuttavia i tentativi di
riarticolazione della qualificazione e delle tutele.
1)
Una
possibile rimedio prospettato è stato una razionale estensione delle garanzie
all’area dell’autonomia e, in particolare, ai soggetti connotati da debolezza
socio-economica che dovrebbero essere identificati non in base a fattispecie
generali ma in base a indicatori empirici quantitativi come ad esempio la
monocommittenza, il numero di ore di lavoro settimanale ecc.
2)
Una
seconda soluzione proposta da una parte della dottrina e denominata “autonomia
assistita” proponeva il sorpasso dell’attuale impostazione del diritto del
lavoro basata su norme astratte ed inderogabili e l’utilizzo di una disciplina
diversificata per ogni singolo rapporto di lavoro o per ogni singola serie di
rapporti. Il metodo dell’autonomia
assistita prevede che i sindacati o la pubblica amministrazione assistano la
volontà individuale del lavoratore non soltanto nella fase di disposizione dei
diritti già maturati ma anche in quella di costruzione ex ante di una specifica
disciplina regolativa del rapporto di lavoro con deroga, entro i limiti, dei
precetti imperativi di legge e contratti collettivi. Addirittura anche l’autonomia
collettiva potrebbe costruire la regolamentazione di una serie di rapporti di
assoluta identità ambientale, professionale e di contesto produttivo.
3)
Altra
parte della dottrina (D’Antona) ha invece proposto una soluzione che preveda il
riconoscimento di un tipo di un tipo unitario di rapporto di lavoro alle
dipendenze altrui , basato sulla dipendenza sul piano economico-sociale invece
che sulla eterodirezione , in modo da superare la distinzione fra lavoro
subordinato e parasubordinato tramite l’istituzione
di tutele omogenee.
Tali proposte
sono però rimaste inattuate. Il legislatore infatti, al fine di ridurre il
contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro, ha preferito
un’altra soluzione esplorata dalla dottrina: la certificazione .
La
certificazione consiste fondamentalmente in una procedura volontaria svolta di
fronte alle “commissioni di certificazione” abilitate dalla legge. Su istanza
scritta comune delle parti, si certifica il nomen iuris del rapporto.
Rispetto
alla sua originaria impostazione sancita dal d.lgs. n° 276/2003, le modalità e le aree lavorative
di pertinenza della certificazione sono
state ampliate con la legge 4
novembre 2010 n°183 (Collegato lavoro).
Con la riforma del 2010, possono essere oggetto di certificazione tutti i
contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di
lavoro. In tal modo viene sciolto il dubbio sulla possibilità di certificare
contratti che, pur prevedendo lo svolgimento di attività lavorative, non erano
qualificabili come rapporti di lavoro. Un esempio: l’associazione in partecipazione (l’associante attribuisce
all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più
affari verso il corrispettivo di un determinato apporto (art. 2549, co. 1,
c.c.).
La procedura di certificazione
finisce con il rilascio del provvedimento di certificazione oppure con un
provvedimento di rigetto dell’istanza. Il provvedimento di certificazione
conferisce al contratto piena forza legale nei riguardi di tutti i soggetti terzi nella
cui sfera giuridica avrà rifessi e tale efficacia è destinata a permanere fino
ad una eventuale sentenza di merito del giudice ordinario o alla decisione in
primo grado di un giudice amministrativo che stabiliscano la disapplicazione o
l’annullamento del provvedimento.
La
novella chiarisce anche il dubbio riguardo la durata temporale dell’efficacia,
nel caso in cui il provvedimento intervenga nei confronti di un rapporto già in
corso oppure nel caso in cui la stipula del contratto intervenga
successivamente al rilascio del provvedimento. Gli effetti della certificazione
si producono dal momento di inizio del contratto, qualora la commissione abbia appurato che l’attuazione
dello stesso sia stata, anche nel
periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto
certificato; invece, in caso di contratti non ancora sottoscritti, gli effetti
si producono solo nel momento dell'effettiva sottoscrizione.
Per quanto
riguarda i soggetti che possono
istituire commissioni di certificazione , la legge lo consente a svariati
soggetti. Le commissioni possono essere costituite, con uguali poteri, dai
seguenti soggetti: Province, DPL( direzione provinciale del lavoro) , Ministero
del lavoro, Direzione generale tutela condizioni di lavoro, Enti bilaterali,
Università e Fondazioni Universitarie, Consigli provinciali dei consulenti del
lavoro.
Volontà espressa in sede di
certificazione e sindacato giudiziale –Nelle qualificazioni del contratto di lavoro il giudice non
può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di
certificazione. L’unica eccezione si può verificare nel caso in cui le parti
abbiano fornito un’erronea qualificazione del contratto oppure quando il
consenso è viziato oppure nel caso in cui sia comprovata una difformità fra il
programma negoziale certificato e la sua successiva messa in atto. Tale principio era stato già affermato nella
riforma Biagi.
Le parti e i
terzi possono impugnare l’atto di certificazione davanti il Giudice del Lavoro,
in caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di
difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva
attuazione, sia avanti il TAR, in caso di violazione della procedura o eccesso
di potere.
Link di riferimento:
Legge 4
novembre 2010 n°183 (Collegato lavoro) :
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2010-11-04;183!vig=2013-04-16
di Giovanna
Cento