sabato 25 maggio 2013

Il problema della qualificazione del rapporto di lavoro e la certificazione


Dalla qualificazione del rapporto di lavoro dipendono molti importanti risvolti, come ad esempio la differenziata disciplina di tutela a seconda che si tratti di lavoro subordinato e lavoro autonomo. Tuttavia le nozione giuridica di tali categorie non sempre collima con le esigenze di tutela poste dal legislatore. Esistono tipologie di lavoro subordinato che hanno perso il connotato della debolezza contrattuale ed esistono invece tipologie di lavoro autonomo caratterizzate da debolezza socio-economica ed escluse dall’apparato di tutela. E’ per questo che è stato più volte richiesta una riarticolazione dell’apparato protettivo che consideri anche particolari aree deboli del lavoro autonomo , laddove questo sia connotato, ad esempio, dalla mono-committenza.

La qualificazione per approssimazione
Il giudice è chiamato a qualificare il rapporto come autonomo e o subordinato e lo deve fare stabilendo quale sia stata la volontà delle parti, intesa come programma negoziale originariamente stabilito e non basandosi esclusivamente su un mero nomen iuris. La giurisprudenza, pur tenendo conto della volontà delle parti, tende a qualificare il rapporto di lavoro solo sulla base dell’analisi del comportamento tenuto concretamente dai contraenti e per fare ciò si avvale dello strumento dei cosiddenti “indici sintomatici” . In sostanza viene utilizzato il metodo della qualificazione per approssimazione : sono stati elaborati degli indici empirici che possano segnalare come, in concreto, si connoti un normale rapporto di lavoro subordinato. Viene accertata dunque l’esistenza di quattro elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato : 1) la subordinazione intesa come messa a disposizione di energie lavorative)  2)la collaborazione ( intesa come inserimento nell’organizzazione produttiva) 3) l’onerosità ( intesa come assenza di rischio in ordine al risultato produttivo) 4) la continuità ( intesa come durata nel tempo del vincolo di disponibilità funzionale).  Viene dunque preso in considerazione il comportamento dei contraenti che non rileva soltanto in quanto comportamento esecutivo del vincolo obbligatorio ma anche come elemento utile per presumere l’esistenza di un’effettiva volontà contrattuale. Fra gli indici empirici possiamo ricordare : l’assoggettamento al potere direttivo, l’assenza di rischio, la cadenza e la misura fissa della retribuzione, l’osservanza di un orario, lo svolgimento della prestazione nei locali di un’impresa, l’inerenza della prestazione al ciclo produttivo, l’esclusività del rapporto.

Col tempo ci si è però resi conto che molti degli indici empirici fossero compatibili con il lavoro autonomo e invece a volte assenti in molte tipologie di lavoro subordinato. E’ per questo che molto spesso si assiste a fenomeni di qualificazione creativa che prescinde dalla fattispecie astratta dell’art. 2094 cod. civ. per supplire alle carenze del legislatore. Solo per fare un esempio,  Bisogna notare come il requisito dell’onerosità sia comune sia al lavoro subordinato che a quello autonomo, oppure come il richiamo al risultato sia utile alla distinzione  solo quando il rapporto di lavoro sia finalizzato alla realizzazione di un’opera completa. Ecco perché l’eterodirezione continua ad apparire l’unico criterio di qualificazione certa del lavoro subordinato.

Molti sono stati tuttavia i tentativi di riarticolazione della qualificazione e delle tutele.

1)        Una possibile rimedio prospettato è stato una razionale estensione delle garanzie all’area dell’autonomia e, in particolare, ai soggetti connotati da debolezza socio-economica che dovrebbero essere identificati non in base a fattispecie generali ma in base a indicatori empirici quantitativi come ad esempio la monocommittenza, il numero di ore di lavoro settimanale ecc.

2)        Una seconda soluzione proposta da una parte della dottrina e denominata “autonomia assistita” proponeva il sorpasso dell’attuale impostazione del diritto del lavoro basata su norme astratte ed inderogabili e l’utilizzo di una disciplina diversificata per ogni singolo rapporto di lavoro o per ogni singola serie di rapporti. Il metodo  dell’autonomia assistita prevede che i sindacati o la pubblica amministrazione assistano la volontà individuale del lavoratore non soltanto nella fase di disposizione dei diritti già maturati ma anche in quella di costruzione ex ante di una specifica disciplina regolativa del rapporto di lavoro con deroga, entro i limiti, dei precetti imperativi di legge e contratti collettivi. Addirittura anche l’autonomia collettiva potrebbe costruire la regolamentazione di una serie di rapporti di assoluta identità ambientale, professionale e di contesto produttivo.

3)        Altra parte della dottrina (D’Antona) ha invece proposto una soluzione che preveda il riconoscimento di un tipo di un tipo unitario di rapporto di lavoro alle dipendenze altrui , basato sulla dipendenza sul piano economico-sociale invece che sulla eterodirezione , in modo da superare la distinzione fra lavoro subordinato  e parasubordinato tramite l’istituzione di tutele omogenee.

Tali proposte sono però rimaste inattuate. Il legislatore infatti, al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro, ha preferito un’altra soluzione esplorata dalla dottrina: la certificazione .
La certificazione consiste fondamentalmente in una procedura volontaria svolta di fronte alle “commissioni di certificazione” abilitate dalla legge. Su istanza scritta comune delle parti, si certifica il nomen iuris del rapporto.

 Rispetto alla sua originaria impostazione sancita dal d.lgs.  n° 276/2003, le modalità e le aree lavorative di pertinenza della certificazione sono state ampliate con la legge 4 novembre 2010 n°183  (Collegato lavoro). Con la riforma del 2010, possono essere oggetto di certificazione tutti i contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro. In tal modo viene sciolto il dubbio sulla possibilità di certificare contratti che, pur prevedendo lo svolgimento di attività lavorative, non erano qualificabili come rapporti di lavoro. Un esempio: l’associazione  in partecipazione (l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto (art. 2549, co. 1, c.c.).

La procedura di certificazione finisce con il rilascio del provvedimento di certificazione oppure con un provvedimento di rigetto dell’istanza. Il provvedimento di certificazione conferisce al contratto piena forza legale  nei riguardi di tutti i soggetti terzi nella cui sfera giuridica avrà rifessi e tale efficacia è destinata a permanere fino ad una eventuale sentenza di merito del giudice ordinario o alla decisione in primo grado di un giudice amministrativo che stabiliscano la disapplicazione o l’annullamento del provvedimento.

La novella chiarisce anche il dubbio riguardo la durata temporale dell’efficacia, nel caso in cui il provvedimento intervenga nei confronti di un rapporto già in corso oppure nel caso in cui la stipula del contratto intervenga successivamente al rilascio del provvedimento. Gli effetti della certificazione si producono dal momento di inizio del contratto, qualora  la commissione abbia appurato che l’attuazione dello stesso  sia stata, anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto certificato; invece, in caso di contratti non ancora sottoscritti, gli effetti si producono solo nel momento dell'effettiva sottoscrizione.

Per quanto riguarda i soggetti che possono istituire commissioni di certificazione , la legge lo consente a svariati soggetti. Le commissioni possono essere costituite, con uguali poteri, dai seguenti soggetti: Province, DPL( direzione provinciale del lavoro) , Ministero del lavoro, Direzione generale tutela condizioni di lavoro, Enti bilaterali, Università e Fondazioni Universitarie, Consigli provinciali dei consulenti del lavoro.

Volontà espressa in sede di certificazione e sindacato giudiziale –Nelle qualificazioni del contratto di lavoro il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione. L’unica eccezione si può verificare nel caso in cui le parti abbiano fornito un’erronea qualificazione del contratto oppure quando il consenso è viziato oppure nel caso in cui sia comprovata una difformità fra il programma negoziale certificato e la sua successiva messa in atto.  Tale principio era stato già affermato nella riforma Biagi.
Le parti e i terzi possono impugnare l’atto di certificazione davanti il Giudice del Lavoro, in caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, sia avanti il TAR, in caso di violazione della procedura o eccesso di potere.

Link di riferimento:








di Giovanna Cento

venerdì 24 maggio 2013

Il lavoro subordinato: la sua definizione e la subordinazione come causa del contratto



La definizione della nozione di subordinazione può essere estrapolata da più di una fonte normativa:

Art. 2094 cod. civ. : definisce il lavoratore subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Art. 2222 cod.civ. : definisce il lavoratore autonome come chi opera “senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente” organizzando dunque liberamente la propria attività. Tale articolo conferma, simmetricamente, la definizione di lavoratore subordinato fornita dall’art. 2094 cod. civ.

Art. 2104 c.2. cod. civ. : afferma che il lavoratore subordinato deve “osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”

Art. 2106 cod.civ. : riconosce il potere disciplinare dell’imprenditore in coerenza alla sua qualità di capo.

Appare chiaro dunque che la caratteristica essenziale del lavoro subordinato è l’eterodirezione dell’attività e l’eterodeterminazione della prestazione.

Subordinazione e causa di contratto
Un tema molto dibattuto in dottrina è se la subordinazione entri nella causa del contratto oppure costituisca solo un elemento esterno alla struttura dell’obbligazione di lavoro. Secondo quest’ultima tesi, la causa individuata dal legislatore  non starebbe nello scambio tra prestazione subordinata e retribuzione quanto tra collaborazione e retribuzione. Se così fosse, la collaborazione verrebbe identificata come lo scopo tipico della prestazione  e dunque come la causa del tipo negoziale. In tal senso, la collaborazione fungerebbe da criterio di valutazione dei comportamenti che le parti devono tenere in osservanza ai generali doveri di buona fede e correttezza, sia da parte del creditore ( cooperazione all’adempimento tramite la realizzazione dell’assetto organizzativo e l’efficientamento del suo funzionamento) , sia da parte del debitore ( dovere di conformazione alle variabili esigenze dell’attività lavorativa  nell’esecuzione della prestazione). Se dunque individuassimo nella collaborazione la causa del contratto, dovremmo ritenere che la  differenza  fra lavoro autonomo e lavoro subordinato non starebbe nella struttura dell’obbligazione ma verrebbe  a concretizzarsi nell’entità del  facere : mentre per il lavoratore subordinato si tratterebbe di una collaborazione mirata al raggiungimento di uno scopo ottenuto tramite la cooperazione di più forze organizzate dall’imprenditore, per il lavoratore autonomo lo scopo sarebbe invece la realizzazione di un’opera finita.

Sorgono però dei dubbi sulla possibilità di adottare una simile impostazione. Infatti esiste, ad esempio, il fenomeno del lavoro autonomo parasubordinato, che consiste nella collaborazione continuativa e coordinata senza vincolo si subordinazione. Tale circostanza evidenzia come esistano anche alcuni lavoratori autonomi per i quali la struttura dell’obbligazione non è finalizzata ad ottenere un’opera finita : la causa del contratto sarebbe dunque indentificabile anche in questo caso nello scambio fra collaborazione e corrispettivo.

E’ in base a questi dubbi che la teoria tradizionale continua a considerare la subordinazione come elemento qualificante del contratto subordinato di lavoro: la causa del contratto sarebbe proprio lo scambio fra subordinazione e retribuzione, confermando l’eterodirezione come criterio distintivo.

di Giovanna Cento


giovedì 23 maggio 2013

Cenni sulle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici


La Costituzione individua tre fonti normative regionali: gli statuti, le leggi ed i regolamenti. Rispetto alle previsioni originarie del 1948, importanti modifiche sono intervenute ad opera delle leggi costituzionali 22 novembre 1999 n° 1 e 18 ottobre 2001 n°3.

Statuto delle Regioni ordinarie: stabilisce la forma di governo e i fondamentali principi di funzionamento ed organizzazione ( art. 123 Cost.) L’approvazione dello statuto avviene tramite una duplice approvazione a maggioranza assoluta da parte del Consiglio regionale (procedimento aggravato)  e può essere assoggettato a referendum popolare.

Statuto delle Regioni speciali: approvato con legge costituzionale (art. 116 Cost.)

Leggi regionali: approvate dal Consiglio regionale e promulgate dalla Giunta ( art. 121 Cost.) nelle materie attribuite dall’art. 117 della Costituzione alla competenza concorrente ( 3°comma) e residuale ( 4°comma) delle Regioni.
Secondo la giurisprudenza, lo Stato può intervenire entro alcuni limiti anche nelle materie di competenza regionale. Questo in base al principio di sussidiarietà ( vedi qui http://studentilegge.blogspot.it/2013/05/cenni-sul-principio-di-sussidiarieta.html )

Regolamenti regionali: Sono adottati dall Giunta regionale (art. 121 Cost.) e, secondo il principio del parallelismo fra fra funzioni legislative e funzioni regolamentari, possono essere emanati nelle materie di competenza legislativa concorrente e residuale delle Regioni.

Fonti normative di Comuni, Province e Città metropolitane.
L’art. 114 comma 2 della Costituzione afferma: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.”.  Tale articolo valorizza il carattere di autonomia già enunciato nell’art. 5 della Costituzione ( La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali).

Statuti degli enti locali: Come previsto dall’art. 6 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, lo statuto deve essere approvato dal consiglio dell’ente locale a maggioranza di 2/3 oppure, se tale maggioranza non viene ottenuta, con delibera approvata due volte dalla maggioranza assoluta dei consiglieri. Lo statuto contiene le fondamentali norme sull’organizzazione dell’ente ( rappresentanza legale, attribuzioni degli organi) , le forme di partecipazione e di garanzia delle minoranze, le forme di partecipazione popolare, il decentramento, l’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi. Lo statuto possiede un rango subprimario , in quanto è posto al di sotto delle leggi statali di principio. Come previsto dalla lettera p del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, infatti, vi è una competenza legislativa esclusiva dello Stato ma limitata agli organi di governo e alle funzioni fondamentali degli enti locali: sembra dunque impossibile l’emanazione di una normativa di dettaglio non derogabile dagli statuti.

Regolamenti degli enti locali: Come previsto dall’art. 7 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, vengono emanati nelle materie di competenza degli enti locali, nel rispetto dei principi sanciti dalla legge e dallo statuto. Si occupano di disciplinare il funzionamento e l’organizzazione degli organi e degli uffici e l’esercizio delle funzioni.

Regolamenti comuniali: Vengono approvati dai consigli comunali ed intervengono in materie fondamentali come l’urbanistica, l’edilizia, il traffico, il commercio, le pubbliche affissioni, i rifiuti urbani ecc..

Altri enti pubblici, col passare del tempo, hanno acquisito maggiore autonomia organizzativa . Un esempio sono le università o le camere di commercio. Anche tali enti pubblici hanno la potestà di possedere un proprio statuto.

Link di riferimento  :


Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali:  http://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/00267dl.htm

di Giovanna Cento